-9 to KitchenGroove

Siamo qua, ma non ci prenderete mai

Insomma, nella mia nuova classe il mio compagno di banco ripete anche lui, ha una Stratocaster e una band che si chiama Inudibili, lui è Cesare, alla voce c’è Pau. Hanno voglia di fare, questi qui, e di lì a poco, quando siamo insieme, ci chiamiamo NEGRITA.
(Drigo – Rock Notes)

È tra una versione di latino e un album degli Stones che prende vita l’avventura dei Negrita, quando il giovane e sensibile Enrico incontra Cesare, sorta di genio dell’elettronica votato al rock, i cui lineamenti, ancor prima del suo cognome, raccontano di origini balcaniche e Paolo, fan inossidabile di Joe Strummer, ma apertissimo a tutto ciò che di nuovo gli gravita intorno. Hanno background simili, ma sensibilità diverse, i tre ed è quello a renderli speciali. L’avventura degli Inudibili, un nome pregno di autoironia e autocommiserazione tipicamente adolescenziali, si conclude dopo tre demo e qualche illusione, ma non senza certezze: non si sarebbero mai rassegnati ad una vita diversa da quella on the road. La formazione veniva notata da Fabrizio Barbacci, giovane produttore e musicista poco più grande di loro, ma con un’esperienza fondamentale alle spalle. Mentre l’ingresso di Franco Li Causi toglieva l’onere del basso a Paolo, dal cilindro di Barbacci escono un contratto discografico e la batteria di Roberto Zamagni: è qui che nasce il mito dei Dottori, è qui che inizia il viaggio dei Negrita. Pau, Drigo, Mac, Frankie e Zama. I nomi si fanno maschere, il palco vita quotidiana. Sono anni molto intensi, quelli. La guerra del Golfo e quella in Jugoslavia riportano a galla sentimenti che sembravano relegati ai libri di storia e ai racconti dei nonni, mentre lo scontro tra Stato e mafia (o tra due versioni di quest’ultima) raggiungeva il proprio apice. Senza dimenticare Mani Pulite, la serie di inchieste giudiziarie che avevano accompagnato lo scandalo di Tangentopoli e che furono lo spunto per la nascita del primo singolo della band, Cambio. Tuttavia, o forse proprio per quello, la scena musicale mondiale vive uno dei suoi momenti più floridi, spinta non solo dalla musica alternativa americana che si era fatta grunge per salvare l’umanità, ma da un fermento così dilagante che era stato in grado di figliare in ogni angolo del pianeta e di ridare vita persino a quei mostri sacri degli anni settanta che, nel decennio successivo, sembravano aver appeso gli strumenti al chiodo. Nirvana e Pearl Jam convivono quindi con band come i Red Hot Chili Peppers, ma anche con i classici nati alla fine dei sixties e prima. Le barriere finiscono, è persino lecito amare contemporaneamente il punk e i Pink Floyd. È in questo fermento, che in Italia si esprime con la stessa urgenza da nord a sud, che nasce Negrita, un album in grado di far confluire tutte le anime di cinque ragazzi di provincia che guardavano al mondo con il giusto mix di ingenuità e voglia di farlo a pezzi. Registrare un album, ma davvero? E come facciamo? E poi agli studi dell’I.R.A, l’etichetta indipendente che ha lanciato i Litfiba e dove sono stati incisi gli album italiani più influenti della seconda metà degli anni ottanta. Roba da segare le gambe anche al ventenne più sfrontato, insomma. Arezzo non è Hollywood, ma lo diventa in men che non si dica. Se Kurt Cobain aveva scritto tutte le cose migliori ad Aberdeen, perché noi non potevamo farlo a Capolona? Dalla finestra dei Negrita si vede il mondo. Un mondo fatto di cambiamenti radicali, nuove identità e viaggi, per ora solo metaforici, tra crossroads che puzzano di zolfo, deserto e Sunset Strip, dichiarazioni d’intenti e voglia di provocare le coscienze (perché, come dice Drigo, se l’umanità avesse orecchie, rischierebbe di svegliarsi dal coma grazie ad una canzone di Lennon).

In realtà, in Negrita c’era già tutto, ma loro ancora non lo potevano sapere.

foto di Alex Maioli